Il brano che segue è tratto dal libro di J. Shapiro Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale, Newton Compton Editori, Roma, 2019
Il testo è una riflessione sul mondo dei nostri figli e nipoti: il mondo digitale, e su come noi adulti possiamo essere loro vicini aiutandoli a imparare e a crescere.
Siamo, e loro lo saranno sempre di più, connessi attraverso ben altro che le tecnologie comunicative. L’alta velocità, l’interdipendenza delle economie, le reti energetiche iper-efficienti, le migrazioni sono tutti esempi di una mentalità connessa, e continuiamo a costruire strumenti che avvicinano la gente. “Ma i collegamenti migliori portano con sé nuove sfide psicologiche, emotive, intellettuali.”
Questo libro ci esorta e ci aiuta, anche con consigli pratici, a non rinchiuderci nella nostalgica lealtà a ciò che è passato, a quella che è stata la nostra infanzia, ma ad aiutare i nostri figli a coltivare la capacità di connettersi, “a vedersi come nodi di una rete che scompongono e interpretano dati, creano significati e valori articolando e ridistribuendo informazioni online e non.”
Prestiamo attenzione ai giochi digitali dei bambini, insegniamo loro a non soccombere ciecamente alle azioni digitali ritualizzate, non lasciamoli soli.
Non tanto rispetto alle abilità pratiche, a quelle sanno far fronte, quanto rispetto a modalità di comunicazione etica e compassionevole, e ad esempi efficaci di connessione perché “senza modelli e guide adeguate, senza opportunità sufficienti di fare giochi digitali sociali e fantasiosi, non riusciranno ad aprire i condotti emotivi o usare le tubature della compassione” di cui il mondo, nostro e loro, ha bisogno.
Nell’estate del 2017 i miei figli vennero con me a un simposio annuale che si tiene su un’isola della Grecia. Era un ritrovo internazionale per economisti, politici, capi di ONG e pensatori.
Passammo quattro o cinque giorni a lavorare, parlare, mangiare e nuotare insieme.
Per tutto il giorno noi adulti sedevamo intorno a un tavolo e sembravamo la versione casual da spiaggia delle Nazioni Unite: avevamo microfoni a collo di cigno, targhette con nome e ordini del giorno stampati pieni di dati e metriche. Discutemmo di politica, migrazioni, trend economici incombenti, tecnologia e competenze del xxI secolo.
Nel frattempo i nostri figli andavano in giro all’aperto ridevano, giocavano e si buttavano nell’Egeo tutti insieme. Ogni adulto presente capiva quale privilegio fosse per i ragazzi poter far parte di un gruppo multiculturale e internazionale di compagni. I miei figli fecero amicizia con bambini provenienza ti da Bosnia, Kosovo, Gran Bretagna, Turchia, Siria, Belgio, Francia, Tunisia, Sudafrica e Germania. Alla faccia della vasca di sabbia globale!
Ogni sera a cena, mentre noi adulti continuavamo le nostre conversazioni serie davanti a cibo e libagioni, i bambini si riunivano al loro tavolo. Ogni tanto buttavo un occhio quando alzavano troppo la voce o quando le risate diventavano sospettosamente vivaci. Scoprivo che erano stati tutti disonesti.
Proprio come i miei studenti, guardavano in basso perché, nonostante l’insistenza dei genitori di lasciare cellulari o tablet in camera, ognuno di loro lo aveva portato di soppiatto a tavola.
Cercavano di nasconderli sotto la tovaglia, guardandosi spesso intorno per assicurarsi che nessuno dei genitori li no tasse. Ovviamente non funzionó. I bambini non riescono a bisbigliare; non sono mai discreti quanto pensano. Noi grandi ci accorgemmo della trasgressione quasi subito, ma decidemmo di non fare nulla. Perché? Perché ci accorgeremo presto che le nostre obiezioni iniziali erano ingiustificate.
Ci eravamo preoccupati che la presenza di apparecchi elettronici avrebbe reso i nostri figli asociali. E in un evento che forniva loro un’esposizione senza precedenti a un gruppo di compagni così diversificato, volevamo incoraggiarli a sfruttare il tempo al meglio. Avrebbero dovuto parlare tra loro, non guardare i telefoni. In altre parole, immaginavamo che i videogame e altre app sociali li avrebbero divisi. Ma scoprimmo che le nostre preoccupazioni erano infondate. La tecnologia finì per fornir loro un terreno comune su cui fondare l’amicizia. I bambini ridacchiavano con gioia mentre condividevano le app i giochi preferiti e provano a scambiarsi i telefoni e tablet senza farsi vedere.
Questo accadde sera dopo sera, per tutta la settimana. E poi, qualche giorno dopo, ritornammo tutti ai nostri Paesi di origine e noi adulti alla routine quotidiana. I bambini, invece, continuarono a giocare insieme. Forse hanno intuito qualcosa che i loro genitori nabbi non avevano capito: l’intimità può essere raggiunta attraverso la grandezza. Infatti, da animale tecnologico, è quello che fa l’uomo: costruisce strumenti per omologare le esperienze e facilitare il tipo di connessione che trascende i limiti di tempo e spazio.
Quasi un anno dopo, i ragazzi continuano a chattare su Skype, giocano a videogame online insieme e condividono idee, foto e storie.
Ecco la nuova infanzia.