L’ANGOLO DEI CORSISTI – Il contributo di Chiara Ferrari

Che cos’è il “qui ed ora”?

Parlare di “qui ed ora” significa parlare di quel magico incontro tra tempo e spazio.

Riprendendo gli assi cartesiani è un po’ come se il “qui ed ora” fosse il punto in cui i due assi si incontrano, l’origine, in linguaggio specifico. Il tempo lo mettiamo in ascisse (quello orizzontale) che arriva all’infinito, e lo spazio lo mettiamo sull’asse delle ordinate (quello verticale) che, rimanendo sempre ancorato all’asse delle ascisse, ad un ritmo costante, si sposta sempre un po’ di più verso destra. Non c’è possibilità di farlo retrocedere, nè di accelerarlo. Volendo dare una definizione totalmente personale di qui ed ora, potrei dire che “il qui e ora”” è il segno che lascia la matita su un foglio bianco: nato e già totalmente compiuto. E’ la nostra esistenza che si dà al mondo in tutta la sua potenza, l’unica fonte di senso dell’esistere. Il qui ed ora nasce ed è già subito morto, ma questa idea di finitezza che il qui ed ora porta inevitabilmente con sé può spaventare, ma anche al contrario trasmettere il coraggio di ESSERE (in modo totale in quel preciso istante), e di RINNOVARSI di “qui ed ora” in “qui ed ora”. Un po’ come se quel segno di matita possa essere arricchito da un altro segno, un altro qui ed ora, anche lui nuovo, appena nato e già finito. Allora la nostra esistenza è formata da numerosissimi “qui ed ora”, cioè tratti, che si susseguono, ma sappiamo bene che non abbiamo una gomma che ci permette di cancellare eventuali segni che non ci piacciono, mentre invece siamo dotati, pur senza esserne consapevoli, di infiniti colori da poter usare ogni volta… l’obiettivo è costruire una traiettoria che ci piace e colorarla con colori per noi significativi, è la nostra traiettoria di vita.

Parlare di “qui ed ora” in questi termini, purtroppo, ci obbliga a scontrarci con tutti quei qui ed ora che non abbiamo vissuto in quanto tali, ma che abbiamo vissuto pensando ad un “qui e ora” già passato (cioè un all’ora) o ad un “qui ed ora” ancora da darsi. La nostra quotidianità è composta per la maggior parte di questi “qui ed ora” inconsapevoli. I pensieri mi conducono ad un luogo a me molto caro, il monastero Soto Zen Fudenji, che si trova a Fidenza, e che ho avuto modo di conoscere grazie al mio lavoro. Lo chiamano “Il tempio dell’altrove, nell’altrove del tempo”, è un piccolo angolo di Giappone, retto dall’Abate Fausto Taiten Guareschi, l’uomo del “rovesciamento continuo” in quanto a prescindere dall’oggetto della dibattere, regala a chi lo ascolta insoliti rovesciamenti di prospettiva, recuperando e ricostruendo l’essenza autentica dell’esistere, pulendola da tanti orpelli “politicamente corretti” poco aderenti alla realtà dell’essere. Penso a Fudenji perché là il “qui ed ora” è ricordato e onorato costantemente grazie a piccoli e silenziosi riti quotidiani, che dovendo compiere anche i visitatori, ho avuto modo di agire in prima persona. Il rito per i monaci è un gesto (un fare qualcosa) che acquisisce un significato (un concetto mentale) e che coinvolge la sfera emotiva; di nuovo ritorna l’unione di corpo mente e cuore, shin gi tai in giapponese. La potenza del rito, in questa accezione, sta nel fatto che compiendolo con la consapevolezza dovuta e il necessario sforzo verso la ricerca dell’allineamento di corpo mente e cuore, ci si radica nel “qui ed ora” contemporaneo: compiendo un rito, che coinvolge chi lo compie in modo olistico, ci si aggancia a quel particolare istante dell’esistenza e ci si dà totalmente a quel frammento di esperienza.

Parlare di Fudenji in relazione al “qui ed ora” mi porta inevitabilmente a parlare di Judo Tradizionale, così come me lo ha raccontato Guido Marchiani, presidente dell’A.S.D Selene Centro Studi Eko e direttore pedagogico e didattico del Settore “Judo e Arti d’Oriente” dell’Associazione.

Nel Judo, e in particolare nel Judo Tradizionale, che non ha l’obiettivo di vincere le competizioni agonistiche, il “qui ed ora” è un aspetto fondamentale della lezione. Di seguito alcuni esempi che lo dimostrano, e una possibilità di traduzione di questi aspetti nell’ambito del Counselling.

Partiamo dagli spazi…

Il Judo viene praticato in una sala, che si chiama Dojo (letteralmente luogo di pratica), sulla cui soglia è posto un gradino[1], un po’ come se la sala fosse rialzata di una ventina di centimetri rispetto al corridoio tramite il quale vi si accede. Che ruolo ha questo gradino? Consideriamo che se si entra di corsa e distrattamente, il gradino rischia di diventare un inciampo, con conseguente ruzzolone sul tatami (materassina su cui si pratica Judo), che per fortuna è morbido. Questo gradino è lì proprio per essere un’“occasione all’inciampo” e se quando entriamo nel Dojo siamo ancora nella riunione che è finita 10 minuti prima, oppure siamo già a cena con la nostra famiglia, quel gradino che ci obbliga ad alzare il piede per non inciampare, con la sua “funzione radicante”,  ci ricorda che “adesso siamo qui”; ma oltre a questo il gradino che ci intralcia la corsa da una stanza all’altra, ci aiuta anche a ricordare che non tutte le stanze sono uguali, e che soprattutto non possiamo essere uguali in tutte le stanze, bensì che dobbiamo saperci adattare alle diverse situazioni che incontriamo, pur senza negare la nostra autentica natura.  E adesso spostiamoci con l’immaginazione nella stanza in cui un giorno svolgeremo colloqui di counselling: non sarebbe interessante riproporre la dinamica appena descritta? Immaginiamo che il cliente arrivi alle 17:00, dopo una lunga ed estenuante giornata lavorativa, perché non proporgli un’“occasione all’inciampo” che lo sradichi dalla sua giornata lavorativa (un qui ed ora già passato) e di contro lo radichi nel tempo e nello spazio della seduta? Si potrebbe ipotizzare che la stanza sia divisa in due parti, da un lato una scrivania per svolgere le parti “più burocratiche” dell’incontro come ad esempio il prossimo appuntamento, la fattura, il saldo e così via; e dall’altro lato un tappeto (che per salirci ci obbliga ad alzare i piedi un po’ di più) che contiene lo spazio del colloquio vero e proprio, con poltrone diverse da quelle vicine alla scrivania, adatte a tutte le diverse posizioni in cui il cliente si vuole accomodare (seduto composto, un po’ più rilassato, gambe incrociate etc ), cuscini, magari un mobile che contiene i materiali utili in seduta (colori, strumenti per fare dei suoni, stoffe…), libri e così via. Lo spazio della seduta. Il cliente arriva e viene invitato a togliersi le scarpe[2]. Nel judo ci si tolgono gli Zoori (ciabattine) e li si dispongono in maniera ordinata lungo il tatami  con le punte rivolte verso l’esterno della sala, in modo che siano già pronte per quando la lezione sarà finita e i partecipanti ritorneranno, arricchiti degli insegnamenti ricevuti, nelle loro vite. Potremmo ipotizzare che cliente e counsellor, che fuori dal tappeto indossano le scarpe, nell’entrare nella zona del tappeto le tolgano, e le riprendano a seduta finita per spostarsi nella zona dedicata alla “burocrazia”. Il “togliere le scarpe”, oltre ad essere indispensabile in una disciplina che  si pratica a piedi nudi, viene arricchito da un altro significato: sugli zoori infatti simbolicamente si lascia tutta l’esperienza pregressa e che ci potrebbe condizionare nell’apprendimento attuale: “no io questo lo so già”, “no che noia questo esercizio l’abbiamo già fatto”, “uffa a me questa tecnica non è mai riuscita”, “dai andiamo avanti che ormai questo l’abbiamo imparato” e via dicendo. Credo che sia così anche nel counselling: occorre essere disposti, durante le singole sedute e nell’intero percorso, a rivedere opinioni che abbiamo dato per assodate, accogliere ulteriori punti di vista, dare ascolto a parti ombra, fare sintesi con nuove consapevolezze. Il “togliersi le scarpe” oltre ad infondere immediato senso di libertà, come a dire al cliente “qui siamo liberi di dire fare e pensare tutto quello che vogliamo!”, è un sostegno al ricordarsi ogni volta, e come se fosse la prima volta, che per crescere ed evolversi spesso occorre integrare e armonizzare (non sostituire) in ciò che già sappiamo le consapevolezze nuove ed inoltre, identificare le parti di noi che “non ci servono più” per darci la possibilità di perderle per strada. Per il counsellor questo mettere e togliere le scarpe e spostarsi dentro e fuori il tappeto potrebbe essere inoltre un sostegno al ruolo e alla concentrazione nel caso di più sedute consecutive, un rito che gli consenta di essere nel “qui ed ora” con ogni cliente.

La reciproca dichiarazione di “presenza autentica”

Un altro momento che nel Judo riveste un’importanza fondamentale, al pari dell’applicare bene una tecnica, è il saluto, contenitore spazio – temporale, che sancisce l’inizio e la fine della lezione. Maestri e allievi si dispongono su due file in base a regole prestabilite che ne differenziano chiaramente i ruoli (entrando in un dojo al momento del saluto, ipotizzando che per assurdo quel giorno nessuno indossi le cinture, a colpo d’occhio comprenderemmo chi sono i maestri e chi sono gli allievi, fra i maestri quello più esperto e quello meno esperto, e così pure fra gli allievi). Il saluto ha un’altra importantissima funzione oltre a quella di essere un contenitore temporale. Allievi e maestri, infatti, contemporaneamente passano dalla posizione in piedi a quella inginocchiata, e poi un inchino vicendovole, per sancire nel qui ed ora il patto tra gli allievi (che chiedono di imparare) e il maestro (che conferma la sua disponibilità ad insegnare). A mio avviso il saluto deve avere le stesse funzioni anche in una seduta di counselling: aprire e chiudere la seduta in modo da essere il contenitore di quel tempo e spazio specifici, una dichiarazione di disponibilità del counsellor a mettersi al servizio del cliente, ed una dichiarazione di pre-disposizione all’incontro da parte del cliente. Un saluto che abbia queste funzioni ma che sia applicabile alla seduta di counselling e coerente con il contesto, potrebbe essere una consapevole stretta di mano, con un significato magari disquisito, argomentato e condiviso con il cliente (visto che la stretta di mano è un po’ inflazionata), magari scambiata con la schiena dritta, uno di fronte all’altro, guardandosi reciprocamente e ricercando l’allineamento di corpo mente e cuore, e non una stretta di mano di sfuggita in diagonale da dietro alla scrivania mentre cadono penne, fogli e compagnia… una stretta di mano che dica “qui ed ora, io e te”.

La relazione

Nel Judo, dopo il saluto inizia la lezione e tendenzialmente la prima parte è dedicata all’approfondimento ed al perfezionamento della tecnica, la seconda parte invece è dedicata al combattimento, occasione per mettere in pratica le tecniche di cui si dispone. Una cosa che insegna il Judo, è che prima di applicare una qualsiasi tecnica dobbiamo capire “con chi abbiamo a che fare”, perché conoscere nei minimi dettagli una sola tecnica è totalmente inutile, è molto più utile avere un repertorio maggiore di tecniche (anche se meno perfezionate) a cui poter attingere a seconda del compagno con cui stiamo praticando. Questo perchè nel judo una determinata tecnica viene applicata solo se si sono create, nel movimento fra i due praticanti, le condizioni perché questa tecnica possa essere efficace. La scelta della tecnica dunque si adatta al “qui ed ora”, la tecnica giusta è quella che si adatta al contesto, al momento e alla reazione dell’altro, senza questi non riusciremmo a far sbilanciare il nostro compagno di pratica. A rinforzo di ciò possiamo dire che Ju-Do significa via dell’adattabilità: cosa intendiamo? Intendiamo che dobbiamo “essere adattabili a…”, dunque acquisire la consapevolezza che non c’è un solo modo corretto di agire, ma che ci sono infiniti modi per rispondere ad uno stimolo, quello corretto deve essere appropriato e coerente a quello specifico stimolo, per raggiungere l’obiettivo. Ad esempio, se io voglio far cadere il mio compagno di pratica potrei spingerlo, molto forte perché ipotizziamo che sia alto 1.90. Lui, che si sente spinto, potrebbe reagire controspingendo e si verificherebbe una situazione di stasi: nessuno cade. Se invece di spingerlo con tutta me stessa, gli dessi solo la spinta necessaria a farlo reagire, lui, per controspingere, si protenderebbe in avanti (rottura della posizione), e io solo e semplicemente spostandomi di lato senza applicare alcuna forza, lo farei cadere. Posto che nel counselling l’obiettivo non è far cadere il cliente (neanche a livello metaforico[3]), il concetto di “applicazione efficiente della tecnica” è forse diverso? Tramite l’ascolto attivo, noi oltre ad affiancare il cliente nel suo processo di autochiarificazione, entriamo a contatto con i suoi canali comunicativi, entriamo come spettatori privilegiati nelle sue dinamiche relazionali e forniamo spunti di riflessione teorici (verbali, non verbali, paraverbali) e pratici (uso del disegno, possibilità di muoversi nello spazio, seggiola calda, body scan e quant’altro) a seconda della persona che abbiamo di fronte. Con “qui ed ora, io e te” non intendiamo solo una specie di patto di collaborazione, bensì sotto-intendiamo che noi counsellor, adegueremo le nostre tecniche a seconda di quel “tu” unico ed irripetibile che abbiamo di fronte, ci inseriremo abilmente con le nostre competenze nella sua esperienza e nella rielaborazione che ne ha fatto, non ci sarà un convincere il cliente, neppure un obbligarlo a fare una certa cosa, neppure una predicazione… ci sarà un’armonica costruzione condivisa di significati e consapevolezza, in cui il counsellor porta le sue competenze e il cliente porta sé stesso. Certo sarebbe riduttivo concentrarsi solo sul presente (qui ed ora in senso stretto), occorre attingere alle esperienze passate del cliente, alle sue dinamiche consolidate, ma invece che rimanere proiettati in quell’all’ora disfunzionale (semplice e descrittivo racconto di sofferenze), si porta quest’ultimo nel “qui ed ora”[4] (rimpastamento di quanto accaduto, analisi dei come, individuazione di risorse presenti, assunzione di impegni e così via). Guido Marchiani dice sempre che sul tatami si vedono i pensieri, le paure, i blocchi… ed ha ragione. Ma tutto questo accade anche durante una seduta di Counselling (e a mio parere è la cosa più affascinante che esista – la relazione con la R maiuscola fra due persone).

A conclusione, tirando le somme, qui ed ora perché?
Perché è l’unica certezza che abbiamo.
Perché ciò che non è “qui ed ora” è passato o futuro.
Perché solo qui ed ora possiamo agire.
Qui ed ora come?
Attraverso i riti radicanti.
Attraverso l’essere presenti a sé stessi.
Attraverso l’occasione all’inciampo
Qui ed ora con chi?
Con le nostre amicizie, le nostre famiglie, i nostri colleghi,
Con i nostri futuri clienti,
Con noi stessi.

Jigoro kano, illustre pedagogista giapponese di fine ‘800 e fondatore del Judo, diceva “ Non c’è cosa sotto il cielo più grande dell’educazione. Con essa la virtù di uno viene trasmessa a molti. La vera educazione accelera il progresso di centinaia di anni”. Non vale forse anche per il Counselling?

[1] A Fudenji c’è un gradino in ogni stanza.
[2] Naturalmente in caso di primo colloquio l’avremmo preavvertito per telefono per evitare di coglierlo alla sprovvista con un calzino bucato perché genererebbe imbarazzo.
[3] Questo concetto meriterebbe un ulteriore approfondimento dovuto al fatto che a volta serve cadere, scontrarsi con l’errore per farlo diventare un’opportunità di crescita.
[4] Riprendendo il processo gestaltico, passiamo dal perché al come.