L’ANGOLO DEI CORSISTI – Il contributo di Marco Lolli

Che cos’è l’emergenza? Chi definisce quando si è o meno in una condizione di emergenza?

Se parliamo di emergenza: ci riferiamo al contesto sociale, culturale o ambientale nel quale è immerso il counsellor oppure al contesto nel quale vive il cliente?

La relazione di aiuto non è già di per sé uno stato di emergenza?

L’emergenza in questi termini appare al mio sentire come una condizione classificatoria, esistono emergenze di diverso grado e importanza.

Ma chi è imputato a giudicarne il valore?

Non può essere il counsellor il deputato a fare tale classificazione, perché se così fosse si posizionerebbe nella condizione di superuomo giudicante e al di sopra delle parti. Il solo concetto di imporre l’emergenza stabilisce un rapporto gerarchico con l’alterità, l’altro ha bisogno di aiuto. È questo il caso dell’immagine del salvatore naturalmente perché ciò appaga il proprio ego, può confermare e fortificare la propria auto-immagine di brava persona, sempre pronta ad aiutare gli altri e a dare una mano.

Mi fermo e cerco di ragionare sul fatto che andare verso l’altro, capire il ‘da dove parla’ implica già di per sé una condizione di emergenza. Per spiegarmi meglio parto dal significato della parola emergenza che recita così: una circostanza imprevista, un accidente.

Se focalizzo l’idea dell’ascolto incondizionato dell’altro mi immagino di trovarmi sempre all’interno di un paesaggio che non mi appartiene. E in questo caso il termine sempre, mi sento di utilizzarlo come un monito, una protezione dell’unicità di ciascuno/a. Il mio compito, quale counsellor, sarà quello di non costruire barriere e, così facendo, di non proteggermi dai cambiamenti che un reale ascolto comporterebbe.

Nella relazione di aiuto e nell’ascolto profondo dell’altro/a uno dei rischi maggiori è quello dell’ascolto inefficace e di interpretare, ovvero di cogliere qualcosa di simile a quanto viene detto e di filtrarlo attraverso: i propri significati, la propria fantasia, le proprie ideologie, il proprio temperamento o il contesto culturale dal quale si proviene.

È un errore da evitare, mentre è importante sintonizzarsi sul proprio impegno nel farsi da parte, nel non interferire e non giudicare l’altro. Certamente i bisogni possono cambiare in base agli interlocutori, perciò può essere utile costruire una mappa di ciò che desideriamo per noi stessi, in modo da trovare quel vuoto fertile capace di accogliere in modo aperto e non giudicante l’altro.

Potrebbe non essere un’emergenza, ma un atto di responsabilità.