L’ANGOLO DEI CORSISTI – Il contributo di Ilaria Iotti

Quando ideale e reale si incontrano e si scontrano: le aspettative

Ognuno di noi è stato oggetto di pensieri e fantasie da parte dei genitori ancora prima di nascere. E’ esperienza materna piuttosto comune quella di iniziare a pensare a “come sarà da grande…” a partire da quando si è consapevoli della gravidanza in atto. Si diventa madri e si diventa figli nella mente, nel corpo e nelle emozioni ancora prima della nascita del bebè. Si tratta di un processo naturale e necessario che stabilisce un legame profondo fin dai primi respiri. La psicologia prenatale teorizza addirittura che i bambini “non pensati e non fantasticati” possano avvertire un senso di mancanza e di indifferenza nei loro confronti. Al contrario essere al centro dei pensieri dei propri genitori fa sentire i bambini attesi, visti, considerati e amati. Spesso però accade che i bambini diventino in maniera spontanea e inconsapevole depositari di desideri e aspirazioni da parte dei genitori: così chi non ha avuto la possibilità di studiare spera che il figlio possa distinguersi nello studio, chi voleva tanto dedicarsi allo sport spera in fondo di poter un giorno iscrivere il figlio nella disciplina tanto amata. In questo modo sul figlio spesso vengono a pesare aspettative che possono condizionare, durante la crescita, lo sviluppo della personalità, quella naturale spinta all’autodeterminazione propria di ogni essere umano. Le aspettative sono delle previsioni che ci creiamo in base alle esperienze del passato ed in base alle convinzioni che abbiamo in merito ad un particolare ambito della nostra vita, sono la nostra rappresentazione ideale, che pensiamo possa prendere una forma reale in noi, negli altri, nelle relazioni. Le aspettative sono frutto di modelli culturali e, seppur variando da contesto a contesto, sono prodotte dai ruoli e dalle norme sociali. La possibilità di relazionarsi con l’altro sulla base di aspettative reciproche fa parte dell’adattamento sociale e si rivela essere di grande aiuto nell’interpretare le situazioni, nel prevedere le conseguenze e nel regolare i comportamenti. Aspettative rigide, però, escludono l’unicità.

Ogni individuo è a sè, è unico e per quanto ci sia vicino o cresca con noi e in noi è un essere indipendente coi propri gusti, interessi e inclinazioni. Ogni essere umano tende a diventare ciò che sente di essere, a raggiungere quella forma «che Aristotele chiama entelecheia, l’unica forma nella ghianda, che la destina a diventare una quercia ».[1]

Spesso le figure genitoriali invece che essere spettatrici ammirate del miracolo della vita che avviene sotto i loro occhi, nelle sue molteplici espressioni, inconsapevolmente plasmano, forgiano, costruiscono. Da qui molto spesso deriva un sentire di inadeguatezza da parte dei figli che si trovano ad interpretare ruoli che non avrebbero  scelto per se stessi, senza esserne consapevoli. Dietro questo passaggio ci sono scambi di sguardi, gesti, messaggi più o meno espliciti attraverso i quali il bambino capisce cosa è bene che faccia per ottenere l’approvazione a cui tanto ambisce, per soddisfare i suoi bisogni irrinunciabili che riguardano il sentirsi considerato, apprezzato e amato da quelle figure che rappresentano tutto il suo mondo. E. Berne parla, a questo proposito di “carezze”, unità di riconoscimento attribuite alla persona meritevole di un valore intrinseco già solo per il fatto di esistere. La carezza nel bambino costituisce un vero e proprio nutrimento per l’anima, e una volta terminato il periodo di crescita simbiotica con la madre, questo nutrimento viene ricercato in altre forme surrogate o simboliche di carezza. Ogni individuo personalizza, durante la propria crescita, il bisogno di carezze e raggiunge dei compromessi che soddisfino in qualche modo la sua “fame di riconoscimento”. Corrispondere alla aspettative altrui e in particolare a quelle dei genitori è una delle dinamiche principali per soddisfare il fondamentale bisogno di carezze.

Il meccanismo alla base delle aspettative prende le mosse da una previsione che non si basa su dati di realtà. Le conseguenze di questa dinamica di attesa e delusione possono comportare:

  • l’allontanamento da se stessi, dai propri bisogni e desideri, situazione che col tempo compromette il senso profondo di fiducia e stima in se stessi;
  • il desiderio di controllo: aspettarsi da se stessi o dagli altri che le cose vadano in un certo modo porta a voler controllare ogni cosa, evenienza impossibile che aumenta la frustrazione e preclude il gusto di lasciarsi sorprendere da momenti inattesi e possibilità;
  • pretesa di poter cambiare, aggiustare gli altri nella speranza di fare andar bene le cose ad ogni costo, con grande sforzo, con pesantezza.

Si tratta di meccanismi che creano un sovraccarico in termini di responsabilità per chi ripone le aspettative e per chi le riceve.

In una vignetta, Charlie Brown riceve un biglietto dai genitori, un gesto di attenzione, una carezza. Quando legge il messaggio però il valore del gesto cambia, la mamma connota il senso del suo augurio giornaliero in relazione allo studio. Charlie sa che per far felici i genitori non potrà darsi il permesso di essere se stesso, a suo modo. La carezza della madre è condizionata cioè si riferisce a ciò che il figlio fa o ha. Il messaggio inoltre è manipolatorio, e nasconde una svalutazione del tipo “tu non sei ok così come sei, ma sei ok solo se ottieni buoni risultati nello studio, studio per il quale io e il papà facciamo tanti sacrifici”. 

Frasi come queste, anche meno esplicite, caricano i figli di enormi pesi, indipendentemente dalle capacità nello studio o in altri campi. Col tempo inizieranno a pensare di non poter essere ciò che sono per essere amati. Può succedere che i figli inizino a sentire un profondo senso di inadeguatezza nel momento in cui si rendono conto di non poter esprimere realmente se stessi ma di dover essere qualcun altro per poter essere ammirati e amati. Il senso di mancanza e di “essere sbagliato” può essere una conseguenza quando ci si rende conto di non possedere le risorse per soddisfare le richieste dei genitori, non per una mancanza reale, ma per unicità. Ognuno di noi ha delle risorse, ognuno le sue all’insegna di quella libertà creativa di essere che caratterizza l’essere umano nel profondo. I bambini tendono per natura a compiacere le figure genitoriali perchè da esse dipende la loro sopravvivenza, cercheranno comunque l’accoglienza e la benevolenza dei genitori anche sforzandosi, modificandosi e falsando emozioni, inclinazioni e sentimenti nel tentativo di gratificare persone così importanti.

In altre situazioni il peso può essere rappresentato da un’ eccessiva ambizione nei confronti di bambini che fin dall’infanzia si sentono pressati sulle loro prestazioni. Anche se sono bambini con tante risorse il loro eccellere non è mai abbastanza. Spesso finiscono per sentirsi riempiti di impegni e appuntamenti, non trovando il tempo per essere bambini, per giocare, per divertirsi e persino per annoiarsi. Anche in questo caso il messaggio genitoriale sottostante è “Sei ok solo se….”. Messaggio che alimenta spinte e meccanismi copionali che appesantiscono e imprigionano.

Sento molto vicina questa tematica. Mio padre aveva iniziato a lavorare dopo le scuole medie, mia madre aveva interrotto gli studi universitari non conseguendo la laurea. Dopo il matrimonio aveva aperto un negozio di cartoleria, giornali e giocattoli, in cui venivano a rifornirsi alunni e insegnanti del paese. Io sono cresciuta circondata da letture di ogni genere, sento l’odore dei giornali stampati, dei libri e dei quaderni ancora oggi. E’ come se avessi sempre saputo che il mio destino era laurearmi, anche se non ho mai ricevuto richieste esplicite. Fortunatamente a scuola riuscivo bene, non è stato difficile, ma poichè ero una bambina talentuosa in diversi ambiti ho ricevuto in regalo una chitarra a sei anni. Regalo che non avevo richiesto, a cui probabilmente non stavo nemmeno pensando. Ho iniziato a prendere lezioni a cui partecipavo senza entusiasmo. Io imparavo bulimicamente tutto, anche quello che non mi interessava, ma finito il corso ho riposto la chitarra e non l’ho più guardata. 

Una sera a casa è arrivato un pianoforte. Io avrei voluto le bambole, i trucchi o le biciclette, ricevevo regali ben più importanti e costosi che orientavano le mie scelte, in silenzio. Ho preso lezioni di piano, imparando con sufficienza e distacco. Ho trovato il coraggio di smettere al liceo aggrappandomi al rischio che coi troppi impegni le mie prestazioni scolastiche peggiorassero. E’ iniziata così la mia lotta con il peso.

 

1 Rollo May, L’arte del couselling, Roma, Astrolabio , 1991, p.20.